“PROMENADE – ITINERARI NELL’ARTE”: FOTO DI GRUPPO - LE OPERE DI DOCENTI, EX DOCENTI E EX ALLIEVI DEL NOSTRO ISTITUTO ALLA EX PESCHERIA DI GIARRE

14.05.2012 18:35

   LA MOSTRA COLLETTIVA PER IL CINQUANTENARIO DELLA FONDAZIONE 

DEL NOSTRO ISTITUTO

NEL PRIMO CENTENARIO DELLA NASCITA DI GUTTUSO

“PROMENADE – ITINERARI NELL’ARTE”: FOTO DI GRUPPO:

ANALISI DEL CURATORE DELLA MOSTRA, PROF. ROCCO GIUDICE

Il titolo scelto per la mostra che celebra una doppia ricorrenza, cinquantenario della fondazione del Liceo e centenario dell’artista cui esso è intestato, offre un prezioso suggerimento per una ricognizione delle opere esposte in una sede come la ex Pescheria del Comune di Giarre: uno spazio espositivo luminoso che sovrasta lo sguardo, non gli chiede di riconoscere l’ambiente dalla funzione, ma di soffermarsi sulle cose che accoglie: pertanto, nella sua, si vorrebbe dire, asettica austerità e eleganza, esso induce a concentrarsi sull’essenziale, cioè, l’opera.

Il contesto fisico fa da scena alla protagonista unica in modo che l’opera in esposizione occupi l’occhio contando solo sulle risorse dell’arte che le è propria. Il titolo scelto per la mostra esprime molto bene il senso con cui le opere di artisti di generazioni e linguaggi tanto diversi vanno lette: promenade, passeggiata, dunque, con quel tanto di digressione, di divagazione che dice di un movimento teso a scoprire le cose senza troppo farsi distrarre dal paesaggio in cui sono inserite o senza pretendere di riconoscervi una trama o una continuità che è il cammino a porre, per ricalcarne, invece, lo schema.

In tal senso, non è casuale il riferimento a “Pitture a un’esposizione” ovvero “mostra di pittura”, una suite per pianoforte di Modest Mussorgskij trascritta in chiave sinfonica da Maurice Ravel[i]. In questa composizione musicale, ispirata al musicista russo dai dipinti dell’amico pittore Viktor Hartmann, ai quali fare da riflesso sonoro, promenade, passeggiata, è il momento di passaggio da un quadro all’altro – acquerelli, perlopiù –: il trait d’union che conduce l’ascoltatore da un’emozione visiva all’altra, densamente fuse nelle sprezzature coloristiche di una varietà resa più ricca dalle dissonanze che presenta ogni ‘quadro’.

Analogamente, nel nostro caso, non si tratta di un excursus, mancando il filo conduttore tematico, ma, appunto, di una passeggiata, senza soluzione di continuità da un artista all’altro, da un orizzonte stilistico a un altro, da un territorio formale a uno del tutto diverso: come se il cammino fosse il paesaggio, fuso a esso, la visione e la cosa vista; e il sia pur mobile leit motif costituisse, perciò, il tema sinfonico, il trait d’union diventasse il territorio da esplorare.

Una passeggiata lunga cinquant’anni, quindi, che leggiamo in trasparenza anche solo dall’ultimo tratto di un percorso storico così complesso: e certamente, non sono escluse le dissonanze da una rassegna che mette accanto opere di docenti, ex-docenti e allievi. Infine, nulla potrebbe essere più appropriato e veritiero di una promenade per chi, trovandosi di passaggio a insegnare in un Liceo Artistico che celebra così felicemente una doppia ricorrenza, considera questo come un anno fortunato.

Cominceremo da Maria Raneri proprio perché tema ricorrente dei suoi lavori sono paesaggi familiari, la Sicilia ionico-etnea con cui sentiamo una sintonia cromosomica, un’affinità profonda col nostro modo di essere, prima ancora che rimetterci all’estro che, d’altra parte, la nostra terra accende, a volte, tanto rapidamente, che questo automatismo si rivela consentaneo a una certa pigrizia che sappiamo esserci congenita, in qualche misura. Ma non è certo questa sindrome a caratterizzare il paesaggio che ritroviamo nei dipinti di Maria Raneri, dove esso non esprime l’idillio che chi lo contempla vive con se stesso, trattandosi di plaghe in cui predomina un indomabile elemento mitico attivo (nel senso in cui in biologia si parla di principi attivi) anche nell’era dei computer e della realtà virtuale – provino a clonare la Montagna per escursioni da followers sedentari quanto garruli, versione pigra del flâneur, ultima incarnazione del cavaliere errante sulle orme di una perduta bellezza. Un paesaggio che corrisponde anche, si intende, a una dimensione lirica, di scorci in cui c’è tutta la luce che l’aria può contenere, tutto il verde di cui nutrire l’erba e che può attirare senza posa l’occhio; ma questi luoghi, visti come se nulla dovessero concedere al ricordo in cui dissolverli, sembrano sussistere nella pittura di Maria Raneri non come ‘frammenti lirici’, bensì come sezioni di un intero, di un tutto, per così dire, organico che non si lascia ‘inquadrare’ docilmente, che non ammette, senza resistere, di lasciarsi fissare senza abbagliare il particolare, che a ardere siano astragali o ginestre in fiore o un tapis roulant di lava. ‘Sciara’, ‘Mare d’erba’: l’Etna, incombente anche quando non entra direttamente in scena, sigilla una natura che sembra sussistere oltre i sentimenti che suscita: ma questi ci sono tutti, sfumatura per sfumatura (anche se, in genere, la pittura di Maria Raneri prende in consegna cromatismi fortemente scanditi). Ecco perché la presenza umana non figura nei dipinti di Maria Raneri: la visione di questi spazi è connotata da emozioni che non restano al di fuori dell’immagine, così come questa non rispecchia passivamente un atteggiamento definito, ma entrambi si compenetrano in un destino (col mito in cui prende figura, gattopardesco blasone siculo: agli altri, la storia) – quand’anche l’uomo non vi avesse alcun ruolo, nel riconoscersi nell’immagine dei luoghi ne fa il segno di una identità. Allora, l’emozione e l’anima, da un lato, un paesaggio e la natura, dall’altra, si equivalgono – nell’arte e per l’arte, che fa di questa scoperta l’origine, l’unico possibile modo di essere (appunto: un destino) della bellezza.

Altrettanto legato alla nostra terra come a un mito vissuto in ogni anfratto del paesaggio e piega della memoria ci si presenta il lavoro artistico di Filippo De Luca. Il dominio della tecnica gli permette di cogliere l’essenziale in una profusione di cose che mirano sempre un po’ più in là di quel che ci è mostrato o ci si impone ‘a prima vista’ – proprio come si dice di un amore a tutta prova. Così, il dato più rimarchevole di “Stazzo”, con l’Etna che incombe sulle case in bilico sul mare, è nella velatura luminosa che anima lo scorcio come se lo vedessimo da sotto la superficie marina: ma come non c’è distorsione area, allo stesso modo, nessuna rifrazione ‘subacquea’ farà da effetto speciale. C’è, invece, una lieve, pressoché impalpabile torsione che sembra un effetto alone, un rifrangersi dello sguardo che coglie questo particolare di sorpresa, invece che ratificare un fenomeno ottico: quasi si stesse per assistere al mutarsi in un miraggio che salvi dalla sparizione un luogo cui non toglieranno l’anima. Quest’anima la vediamo, vorremmo dire, in carne e ossa sotto mentite spoglie xerofile in “Notturno – cesta con fichidindia”, una natura morta bloccata nel fermo-immagine di luci stroboscopiche: dipinto dal più scoperto carattere emblematico, con i frutti perforati dolorosamente dalle spine che, nello stesso tempo, li proteggono: allusione a un masochismo tipico – non del tutto puro folclore; non semplicemente l’esotismo su scala ridotta quanto più la memoria allude a una distanza di cui non sa darci l’esatta misura –, noi siciliani amiamo, a volte, farci da noi stessi il male che non ci viene dagli altri, così da sollevarli dall'incomodo senza fargli pesare troppo la trascuratezza che ci tocca subire da loro. Il ficodindia, pertanto, come frutto che racchiude l’immagine della nostra cara isola. Sembra di udirne il grido – forse, nemmeno troppo straziato: ai siciliani piace rimproverarsi, il modo più facile per assolversi da soli – mentre precipitano nella cesta, intanto che fiori notturni sembrano assistere al dramma per illuminarlo a giorno e porgergli, conforto o beffa, un ‘pubblico’ che fa termine di confronto nei colori inguainati come costumi in fibra simil-sintetica e forme vezzose.

Passiamo, adesso, da uno spazio esterno e aperto a uno chiuso, pur senza cambiare orizzonte – interiorità e esteriorità si scambiano i ruoli, il senso del movimento è quello di un processo di conoscenza che affida le sue risorse a paradigmi riconoscibilmente, tangibilmente siciliani, pur senza volervi cedere come a cliché che mettano al riparo da quegli imprevisti di stile che sono strumento di ogni ricerca artistica autenticamente libera.

Abbiamo, così, i bozzetti di Anna Di Leo, che hanno sempre un’origine colta (per scelta e attitudine personale, si intende dire, non come principio deontologico o per finalità pratiche connesse al lavoro nell’ambito intellettuale): ciò che, del resto, vale per tutti i suoi lavori, si tratti di scenografie per adattamenti da Pirandello o di digressioni visivo-visionarie che prendono spunto dalla poesia di Samuel Taylor Coleridge. In questa occasione, Anna Di Leo espone bozzetti per una riduzione teatrale cui, perfettamente in tema e in tono con la parodia di un dramma, mai essi poterono contribuire. Pirandello sarebbe stato d’accordo: rappresentazione della impossibilità di rappresentare altro che la fuga dalla Forma e di nuotare controcorrente nel flusso della Vita. Maschera e abito di scena e spazio in cui chiamarli a un ruolo sono, così, elementi di un’arte che ha di fronte a sé una realtà da interpretare come fosse un sogno di cui esorcizzare segni e messaggi che rimangono, prima che indecifrabili, indicibili. Quello che va in scena o entra nel quadro è, dunque, l’allegoria spezzata come un’immagine dentro un labirinto di specchi, pronta per esserne fissata o per evaderne. In questo sentiero interrotto, si va da suggestioni liberty a variazioni iconografiche da arazzo o codice miniato rinascimentale ovvero figure estratte, per un dettaglio o un altro, dalle carte dei Tarocchi. Ecco che Favola e Fato interpretano il teatro di idee molto serie vestite a festa da Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia[ii] per un défilé in surplace dove si contempla Vanità (dal grande umanista ribattezzata in modo da denunciarne la paternità: Filautia, lett., ‘amor proprio’), algida e fatua femme fatale; Adulazione, una virago Domina che ha ferocemente asservito un formidabile organo del gusto per farne allusiva bandiera al vento; Voluttà, garçonne promossa a madame incoronata da labbra che l’aureolano precocemente a martire… In ogni caso, il corpo e l’anima come supporto e riflesso di una maschera o di un costume, la carne come superficie abitata da colori e geometrie che imbrigliano sensi e intenti, che non saprebbero farcela a disciplinarsi da soli.

Antonino Vecchio, unico fra i partecipanti alla mostra, espone una piccola scultura in terracotta, Cavalli e un acrilico su masonite, Sciatore: doppio cimento per una vocazione unica, a giudicare dalle due opere, quella di una forma che, relativa a soggetti in fase di stasi o in movimento, si confronta a viso aperto con la struttura dei materiali e con lo spazio. Per Vecchio, spazio e materia sono, volta a volta, antagonisti o complici, un modo diverso di scontare la solidarietà nel concorrere alla forma come nel contendersene le sfaccettature, le più diverse propensioni e proiezioni plastiche. I Cavalli sono un omaggio di Vecchio al più famoso concittadino linguaglossese, lo scultore Francesco Messina, uno dei protagonisti della grande arte del secolo scorso: l’omaggio di Vecchio, nel rifarsi a un tema ricorrente in Messina, propone una rilettura che profitta delle ridotte dimensioni per risolvere il modello di riferimento su una chiave più colloquiale, cioè, diretta a cogliere la forma nell’intensità, più che nell’adesione al disegno in cui essa viene fissata. Allora, lo slancio che ne percorre il profilo incanala l’energia potenziale delle linee di fuga per imbrigliarlo nei solchi che diluiscono la compattezza delle figure, su cui s’allarga a onde l’inerzia di un moto che si arresta di colpo o sta per scattare nella dimensione della corsa che, nelle orbite che vi gravitano o meridiani che li avvolgono, gli è preclusa dai limiti della materia in cui ne è espresso il dinamismo. Lo stesso può dirsi per Sciatore: la figura è colta su uno sfondo privo di profondità, lo sciatore deve ridurre l’impatto con l’aria e qui, sembra aver rinunciato a ogni spessore proprio, il movimento ha scardinato la visione privandola di coordinate e la figura è saldata allo spazio da cui emerge, la traccia lasciata degli sci sembra imprimersi nell’aria, filtro sottile che separa la superficie del dipinto da ciò che sta oltre di essa.

Giuseppe Cristaudo espone una scultura in cui un essere metà uomo e metà angelo si schianta o forse, si districa dalla pietra che lo serra e imbozzola e che, nel caso – come tutto lascia pensare – si trattasse di Icaro o di qualche angelo caduto in sonno, se non è sognato dall’artista per noi, racchiude, sotto il velo lapideo, il cielo di cui addurre così, attraverso la durezza dell’elemento in cui condensa la forza di gravità, tutta l’inaccessibilità a chiunque sia sprovvisto di apparato alare omologato per ascese vertiginose. Il blocco calcareo o nuvoloso da cui emerge l’eroe reca di questa vertigine un’impronta che è, insieme, sintesi dolorosa del dramma e trascrizione in forma di logo del patronimico – Dedalo: il cerchio si svolge, la sfera celeste si dipana, ma dal labirinto in cui la caduta si inanella non si esce, tanto che l’angelo fatica a trarsi dal fondo in cui è piombato – inciso nella pietra e in excelsis, etere impalpabile o materia inerte da cui la carne trovi riscatto: una spirale, insieme, elica del dna fossilizzato, mappa del volo precipite in una sorta di scia nuvolosa che accompagna il naufrago dell’aria e dell’intricato nascondiglio paterno per il mostro che ha fagocitato nella pietra la sua vittima. Cristaudo, nella fusione della forma solida (il cubo, in cui ‘incubare’, inglobare o ‘incarnare’ il calco) con la figura ibrida umano-trasumanante che, pure, tenta di sgusciarne, di strapparsi delicatamente da quella crisalide calcinata, condensa il racconto mitico in un’unica scena, in cui non c’è la successione, ma la simultaneità fuori del tempo in cui la tragedia si ripete.

Mario Restifo si muove sulla sottile linea di confine fra massa e spazio, nella superficie in cui si consuma una disputa in cui gli antagonisti si scambiano i connotati allorché entra in scena il movimento, cui la forma si oppone e cui va sottratta o cui, come in “Bacco”, essa aderisce fino a subirne le pressioni dall’interno e dall’esterno; allora, materia e spazio insorgono come elementi cui l’uno e l’altro fanno da supporto. Così, scontandone le tensioni, il disegno e i volumi ne sono incisi e traversati, l’energia ribollisce e trabocca dionisiacamente, lasciando affiorare a onde le tensioni che ne definiscono consistenza e reattività. In “Bacco”, il movimento prescrive il corso al segno, che fluisce nella forma come per cancellarla, anziché fissarla e disfa il corpo nella materia che la accoglie e cui fa da sostrato: Restifo sembra, qui, portare all’estremo la lezione di Boccioni. In altri casi, Restifo sembra orientarsi verso l’altro polo della sua arte, che mette in rapporto massa e movimento, in cui il corpo e la forma sono il campo d’azione continuamente dissodato e rivoltato per impastare figura e spazio in modo più intrinseco e drammatico. È il caso di “Notte”: il corpo come luogo di decantazione della/dalla materia, la superficie su cui si ingorgano dinamiche del profondo che affiorano e pressioni esogene che la investono e richiamano energie sopite, le sfidano, quasi, per svuotare da un contenuto inorganico e amorfo.

Può darsi che il titolo, “Grande foglia”, dell’installazione di Vito Vasta, voglia suscitare un effetto volutamente dissonante rispetto alle suggestioni che l’opera sollecita. Vediamo combaciare o prendere il largo quelle che sembrano due labbra o anche, due labbri di una ferita aperta, di una fenditura da cui sgorga un vuoto che contamina superfici, così, abrase, corrose, butterate, scabre: la firma apposta in calce o in cima a un vuoto che non si rimargina o conclamato come uno strappo nell’ordine delle cose possibili, che siano distintamente percepite o appena evocate. La muda di due ali al termine del loro ciclo vitale di volo. Tutto è meglio del vuoto che c’è in mezzo, anche queste membrane di inaridita scorza emotiva, una corteccia caduca o un bozzolo insensibile e del tutto impermeabile al senso, l’involucro o il bordo di un orizzonte arenato fra le pieghe combuste della realtà o ossidati scarti di produzione di un mondo di fortuna monouso, tutto da costruire o appena dismesso da chi non vuole sentirsi in debito nemmeno con i propri sogni.

Paolo Guerrera presenta due gessi patinati, un busto di bambino, “Come fasciato” e un nudo, “Verso marina”. Il primo, di fattura classica, affida alla fisionomia minutamente rilevata il senso di una narrazione plasticamente leggibile ‘in trasparenza’ già nella natura stessa del materiale, prima che nell’espressione: il corpo irrigidito nella fasciatura ‘parla’ della vocazione alla forma cui l’arte di Guerrera risponde con prontezza di dettato e purezza di accenti. “Verso marina” ricorda i nudi femminili di Arturo Martini, a cominciare dalla celebre Pisana. Guerrera è ligio alla figurazione, però, modernamente ripensata nella sintesi dei volumi, cui il gesto, l’attitudine della figura sono consentanei: come se la posa fosse un’estensione della forma o il tentativo di svincolarsene per vivere fuori del racconto di sé, così che la figura ne è veicolata in una densità senza peso o di cui il peso è un correlato mnemonico, psicologico, più che fisico. Nello stesso tempo, Guerrera contrae o all’opposto, persegue ellitticamente la trama anatomica, come per risolverne ovvero ritrovarne nella cadenza gli spessori, dando a quest’opera un carattere, appunto, di tensione, verso ovvero già oltre: concentrando e raddensando il gesto, il ritmo sembra in contrasto con il respiro e la vita si colloca al centro impossibile di questo ‘dramma’ che la figura, sospesa quanto più in cerca di un punto di equilibrio o di una via di fuga, non riesce a vivere appieno o di cui così le è fatta grazia.

I lavori di Rosa Scarabelli sembrano sussistere all’incrocio fra i generi che frequentano, pitture, sculture o installazioni che siano, in uno stato, pur se in sé concluso, che sembra andare oltre i confini che traccia o richiama, che non si attiene alle distinzioni che procedono per categorie ratificate: ma, non di rado, fa questo proprio lasciando disattese le potenzialità che dispiega. Sono opere in cui i diversi elementi e materiali che vi compaiono concorrono a peculiari morfologie d’impianto, che debordano dai termini prescritti con un’ostinazione che sembra sottendere le cose messe in opera, per una fatalità che vi incombe e che vanamente sarebbe contraddetta dall’indole dell’artista; altre volte, invece, il non attenersi a perimetri e programmi è elemento costitutivo, connaturato o programmatico anch’esso, una sorta di attacco preventivo a una materia più viva delle cose in cui si manifesta, più reattiva di ciò che testimonia. Lo vediamo nei lavori presentati in questa occasione: “Mistero nella sua globalità” e “Divenire”.  I pannelli sono nicchie al cui interno collocare immagini e manufatti; lungo tutto il bordo corrono file di lampadine che ne fanno edicole votive o una sorta di scena da bassorilievo atrofizzato di un varieté in miniatura. Tutto è pronto per lo spettacolo: in realtà, qualcosa ci dice che esso c’è stato o ci sarà e quello che rimane da decidere è se ce lo siamo perduto o non siamo invitati a assistervi. Vediamo i ‘personaggi’, le maschere, i segni che fissano l’azione, ma non la “globalità” né il “divenire”, che sono omessi, cassati da questi rilievi topografici di un tempo sospeso; o si tratta dell’arredo di una scena, in parte, onirica, in parte, in attesa di essere ammessa nel repertorio di qualche vicenda: cui, del resto, non offrire riscontri e fino a allora, inadempienti. Il passaggio da una dimensione dall’altra, insomma, non agisce da cifrario simbolico né fa da percorso allegorico, ma si sostiene sulla plausibilità di puri assunti formali che, come sfuggono a ogni rinvio a dati certi, così negano validazioni dell’esperienza, per esistere come schemi dettati da un ritmo che suggerisce la sintassi prima delle parole da trovare: i pannelli sono tavole anatomiche, ‘quadri in situazione’, di una situazione che sfugge o da cui dileguarsi.

Nelle opere di Vito Mertoli, verticalità gotiche e sinuosità barocche si intrecciano in un congegno che cattura l’immaginazione per imprimervi un moto perpetuo che, dovunque ci porti, risolve in un fattore di armonia e di equilibrio l’impulso cinetico da cui prende l’avvio un meccanismo narrativo, onirico, metamorfico collaudato in ogni sua parte. Prendono, così, vita costrutti rigorosi e insieme, aleatori, quasi un ready made di oggetti immaginari, di residui diurni trafugati a una dimensione fabulatoria: modellini di palazzi intercambiabili con l’utensileria che li addobba, protesi ludiche delle skyline di Cambaluc in bottiglia, scorci delle Città Proibite di qualche sopravvivente e inespugnabile regno di Cipango tascabile, cornice delle architetture astronomiche di cui sono costellazione; pianeti o microcosmi alla Lovecraft o rappresentazione della flora vetrificata che vi alligna, distese di still life ermeticamente sigillate in elementi nobili, rigogliose foreste vergini di nature morte che ne popolano ogni angolo; le strutture in cui si materializza il percorso da seguire per giungervi e perdervisi o per sottrarsi alla sua forza di gravitazione utopica; la contiguità materiale con ciò che materiale non è; le concrezioni di un impianto onirico sgomberato o della pressione della realtà che ha reso inevitabile togliere l’incomodo. Inutilmente cercheremmo un punto d’accesso a questi mondi: vivono in uno spazio di linguaggio da cui nulla potrà distoglierli, a cui invano porre condizioni o chiose, da cui non si possono esigere notizie né descrizioni.

Emilia Maccarone propone un omaggio all’opera di Guttuso e lo fa con il Guttuso più ‘intimista’ e inquieto che affiora, significativamente, ogni volta che il Maestro di Bagheria si cimentava con le donne e i nudi femminili: soggetto che ritroviamo in molte delle opere di Emilia Maccarone, che rappresenta le donne avvolte – si potrebbe dire, per gusto antifrastico –, rivestite di un alone di mistero: che non è mai, però, quello, un po’ scontato, di suggestioni romantiche di ritorno e meno che mai, della denuncia di ‘genere’ per fuggire nel ‘sociale’ e non tornarne più. Sono donne che hanno trovato il ‘luogo naturale’ dell’elemento femminino dentro scorci d’interno o definizioni d’ambiente – un giardino; una terrazza – che includono il paesaggio come componente d’arredo, che ne mettono in ogni caso allo scoperto e a dura prova le tensioni nascoste nella nudità che non ne assolve: spazi interiori rifratti attraverso un prisma che imprigiona ogni caratterizzazione ‘drammatica’ o astrazione allegorica in un geometrismo asettico, puro e refrattario, inospitale e desolato, pungente, a dispetto di una profusione di cuscini e di contorni floreali e di colori forti con cui ammorbidire le asperità del dettato segnico. Più che un contesto che dia occasione a un sentimento, quindi, ambienti di una segregazione, non sappiamo se definitiva o provvisoria. In questo caso, la malinconia di Guttuso, che riprende quella di Dürer, assume anch’essa un aspetto straniante, che permette di individuare in Guttuso potenzialità diverse e ‘inquietanti’ a loro volta: come una riduzione del realismo guttusiano ai moduli della pop-art, passando da certe figurazioni composite in cui soggetti e segni si incrociano o collidono senza incontrarsi né coesistere, ma solo risonando in cadenze percussive geometricamente incardinate senza soluzione di continuità fra spazio e figura, come in Depero.

Da una deriva di archetipi optical sembra scaturire la pittura di Sebastiano Grasso: visione ricondotta a moduli cromatici meno soggetti alle leggi del visibile e invece, cooptati per le valenze squisitamente ritmiche promanate, prima ancora che simboliche, secondo un’acustica visiva senza codice – le dinamiche di un’interiorità che assumono i contorni dell’universo, che, nell’‘ottica’ (questa sì, per eccellenza) della visione mistica dell’Oriente, non può essere visto, non può costituire oggetto o frutto di speculazione, per essere indagato come un qualunque corpo contenuto nel Tutto, né campo e limite di osservazione sensibile, per essere rappresentato, bensì modo di vedere, semmai, fattore di conoscenza ovvero punto di vista: principalmente, su di sé. Ogni colore è un pianeta a sé: e il mondo come somma di queste sensazioni è fuso nella girandola che muta con noi il suo spettro. Da questo sottofondo e insieme, apice cromatico, Sebastiano Grasso pare voler trarre tutti gli accordi possibili: Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche, scrive Montale, che aggiunge: Svanire / è dunque la ventura delle venture (Portami il girasole, in Ossi di seppia). Universo come percezione e proiezione dell’interiorità, degli universi interiori, quelli che Grasso offre nelle sue pitture: ideogramma che articola come partitura l’indicibile che è la lingua in cui l’universo e l’Io possono rispecchiarsi e essere formulati, mappa stenografica dell’immagine che, non a caso, trova rappresentazione nel mandala, sorta di mantra cromatico, riflesso del mondo e di sé come qualcosa di unico e irraggiungibile da cui si irradia la coscienza attuale e il luogo reale… Più o meno reale. Sebastiano Grasso sembra tenere desti i sensi sull’orlo di questo abbaglio cosmico che forma la nostra ossessione o il nostro incanto.

Maria Grazia Parisi: dei due intarsi lignei in mostra, particolarmente degno di attenzione, rispetto a “Rivedendo l’Arcimboldi”, ci si rivela “Omaggio a Giulio D’Anna”, futurista con cui Maria Grazia Parisi instaura un dialogo sul filo del contrappunto. Maria Grazia Parisi rilegge in maniera convincente il modello per darcene una versione in cui il rapporto fra i volumi subordinato al movimento, tipico della visione futurista di D’Anna, viene ribaltato, trasformando in dinamismo il rapporto fra i volumi, con cui forma un unicum in una immagine fuori dal tempo – nulla di strano che il risvolto e anzi, l’approdo del futurismo a un massimo di velocizzazione astratta sia una metafisica, di atmosfera e di sensi, da figurazione e realismo paesistico. L’immagine che ne risulta riconduce al medesimo linguaggio, quello di una scansione e insieme, irradiazione geometrizzante, in cui spazi e superfici sono già saldati dal movimento dell’occhio, se non del corpo delle cose e delle figure, da cui li assolve, della struttura che le assimila in una omogeneità cui non si frappongono né forma né materia. Figure e gesti, luoghi e oggetti, pertanto, sono definiti da colori distribuiti uniformemente: e nel gioco a incastro che ne risulta, nel rigore quasi meccanico con cui sono composti, volumi e distanze si risolvono in una dimensione in cui la prospettiva è l’effetto di un contrasto cromatico in cui non vi sono vibrazioni né accentuazioni luministiche, senza cedimenti né ridondanze.

Loredana Angemi: pregevole l’olio su tavola “Immenso II”, opera che si configura come astratta, nella sua essenzialità monocromatica di muraglia azzurra, ma che non potrebbe essere più gestuale nella massa ondosa della pennellata, magma allo stato fluido che si avvale di una stesura ampia, fitta e compatta lungo cui scorre in scanalature sinuosamente avvolgenti una visione marina o celeste che vi è adombrata in una verticale ipnotica.

Salvatore Bua,  ‘Ignoto I’ e ‘Ignoto II’:  il segno sembra, nonché definire, attraversare il volto così come la tela, spazi incisi con una determinazione plastica le cui lontane radici espressionistiche si legano, poi, alla decantazione più ostinatamente post-moderna, renitente a ogni proposito figurativo testuale o metaforico. Tutto passa e è dato  con i segni, sottili, ipodermici (le cui matrici ultime sono in Wols, che smembra il segno come unità minima del linguaggio iconico, facendone un acido corrosivo della figura), sospesi fra anamnesi, che ne rifiuta gli uffici e l’oblio, di cui sono testimoni, all’inizio o alla fine della fisionomia che vi affiora: il ritratto, cioè, come prova che il volto è più solo il testimone e non il protagonista della storia di cui è il prodotto – milite ‘ignoto, appunto o residuato ‘bellico’ di essa, cui non si rassegna.

Ersilia Contarino affianca gabbiani o rondini, onde, un volto alato/aureolato: si tratta di opere che compongono un segno tenue quanto tenace, fiammeggiante e morbidamente acuminato, che si definisce quando sembra farsi più volatile, sottratto alla presa da lotta all’ultima sfumatura o al primo assalto del colore. Fra suggestioni liberty e déco, ne sortiscono, svincolandosi da un compatto antemurale cromatico allo sguardo che ne segue le evoluzioni frastagliate, fatte più per sfiorare o evocare che per definire immagini dichiarate nella loro matrice mitica: come in “Sicania”, tecnica mista su tela; o eloquenti, come in “Legame”, olio su tela. In “Iside e Osiride”, Gian Giacomo Costa riverbera le sigle di un simbolismo straniante e insieme, evocativo che fonde i segni come non è dato saldare in unità le cose rappresentate. Vi si colgono echi di Odilon Redon, ma immedesimato in paesaggi che sembrano tratti, si vorrebbe dire, quasi di peso dalla cosmologia di H. P. Lovecraft. “Rinascita” è opera più esplicita e sembra recuperare un simbolismo d’origine nell’effetto di contrasto, dirottando la tensione sull’enigma cromatico fra la fissità delle lapidi e il fluttuante spettro femminile che si erge azzurro su di esse e arpeggia e sferza l’atmosfera sottostante, spenta e quasi ipogea.

Valentina Deias: quantomeno originale l’“Omaggio a Carrà”, un gessetto su cartoncino, reso attraverso il rifacimento, peraltro, filologicamente ineccepibile nell’alta fedeltà, di un dipinto di De Chirico: sottile e davvero, metafisico ossequio a un maestro di quella scuola evocandone il patriarca dalle mai dismesse funzioni. Claudia Deias, invece, reca tributo a Cézanne, un Cézanne rifatto per evidenziare soprattutto, ciò che sembra il pregio di questo remake, il rapporto fra i piani nella distribuzione dei volumi dei corpi, che ‘emanano’ spazio (che, saturo di esse, gli fa da ribalta) come la luce astri: un Cézanne precursore delle rivoluzioni figurative proto-novecentesche, dove lo spazio è non solo proprietà dei corpi, ma prodotto naturale di essi e la luce vige come ‘forza di gravità’ della visione che sono i colori stessi a irradiare, anziché assorbirla: componenti strutturali anch’essi e non solo qualità meramente accessorie dei corpi.

Di Rosario Lo Turco sono due matite su carta: il ritratto di “Hilary Duff” (immaginiamo si tratti di un’icona mediatica: se diva degli schermi, starlette della blogosfera o vedette da reality-show, non si saprebbe dirlo) è un primo piano a alta definizione ottenuto con una matita cui non sfugge la posa, indistinguibile, ormai, dalla persona, in ipotesi, ‘al naturale’. La celebrità misurata sulla capacità di ‘sfondare lo schermo’ si riconosce quale che sia la vetrina di esposizione: perché mai andare oltre quel dato di ‘cultura’, anche a medium mutato? Lo Turco sembra maggiormente portato per il ritratto, l’interesse per l’immagine, per la gamma espressiva racchiusa in un tratto fisionomico in sé neutro è evidente anche in “Giuseppe in costume da toreador”, un volto di ragazzo che, come da titolo, è agghindato per una festa in costume. L’accostamento fra la persona pubblica e l’anonimo propone come complementarità quello che può sembrare (e in parte, è) un contrasto: nel primo caso, il volto ‘regredisce’ dal personaggio-maschera alla persona-volto, in un percorso senza vie d’uscita; nel secondo, dalla persona alla maschera, ma è un muro altrettanto resistente, per la matita, che deve andare oltre il dominio della tecnica richiesto all’artista dopo che la padroneggi pienamente.

Serena Marino: la luce è, in ‘Senza titolo – II’, come un corpo contundente e un materiale solido che aderisce o colpisce, sorprende in ogni caso zone buie o in penombra, ma senza difesa di un luogo immateriale, sognato o riflesso in sogno, nella dura assertività del contesto. In ‘Senza titolo – I’, invece, la luce dispersa è come una nuvola investita o espulsa da un astro che splende lateralmente, dalla sinistra; e le caldaie e gli oggetti ammucchiati per terra sono come stretti a muro o schiacciati al suolo, fissati dalla pressione luminosa, quasi che i luoghi respirassero la luce o fosse la luce a permettergli di respirare.

Paesaggio lago do Goghinas, I e II, di Roberto Naso. Sembra che il lago si distenda verso l’alto, che il paesaggio sia articolato nella luminosità liquida in cui si risolve la visione, quasi che la dimensione fisica costituisse un limite a uno sguardo assai più profondo di quanto possa consentirsi l’afferrare ogni dettaglio per discriminarvi uno spessore, per tallonare un contorno, rinvenire un vuoto o urtare un rilievo. Ecco, perciò, la pennellata schivare le cose, ma senza eluderle, come per indovinarne il segreto prima di possederne integralmente i connotati visibili. Il pittore, qui, sembra procedere secondo modalità che ricordano certi acquerelli settecenteschi, ma anche la pittura sur le motif pre-impressionista. I lavori presentati da Pietro Paternò, Carlo Mangiù, cammeo-ritratto di un attore noto alle platee siciliane e Drago, entrambi in plexilglass; e un dipinto, Crocifissione, sembrano ribaltare i crismi della pittura in quelli della scultura e viceversa. L’uso del plexilglass,  materiale trasparente, aereo, sembra svuotare il profilo e la figura per giungere all’idea portando a un massimo di intensità il disegno. La forma, non la materia, è la sostanza necessaria a individuare concretamente una persona a tutti gli effetti o una creatura favolosa. L’attore è una maschera anche in effigie; il drago ha divorato, fagocitato anche la sua consistenza reale nella linea d’attacco che fiammeggia sulla silhouette diafana che lo contorna della leggenda che deve assecondare. La pittura, al contrario, è più fisicamente coinvolta nell’immagine: in Crocifissione, il disegno di scorcio sembra inchiodato alla carne, in modo che non sappiamo se sia questa a vincolarlo o viceversa.

Antoine Oliveri coglie, nell’apparente similarità di atteggiamenti in soggetti diversi, un effetto di contrasto che, quasi subliminalmente, trasforma o meglio, fa emergere da qualcosa di apparentemente ovvio un dato straniante o addirittura, perturbante. “Il piccolo pilota” e “Il sorriso della sposa”: le foto decontestualizzano un bambino al volante di un’automobile-giocattolo e una sposa nel giorno più bello: nulla di più scontato del sorriso di entrambi, pronti per l’album delle foto-ricordo. Accostare le due immagini suggerisce che il gioco del bambino prefigura quel futuro che riporta la sposa a un gioco di quand’era bambina. Se il bambino è tale perché riflette i sentimenti degli altri e le attese dei grandi, nei grandi rimane, oltre ogni letizia, una dimensione ludica che sorprende scoprire come riflesso dell’infanzia e dei suoi giochi felici. Il ‘gioco della sposa’, insomma, ce la rivela più inerme – rispetto al bambino e alla sua immediata corresponsione di letizia spensierata – di fronte alla ‘felicità raggiunta’, scriveva Montale.

Giunti al termine di questa passeggiata, che vuole rappresentare solo un itinerario possibile e una veduta di scorcio delle opere (intra)viste, il paesaggio di una mostra così eterogenea rimanda alla geografia di un cinquantennio, alla più vasta e mossa panoramica delle esperienze che cinquant’anni di Liceo Artistico hanno offerto e alle possibilità che esso consente a chi vi studia e vi lavora di esprimere la propria sensibilità, di affinarla e di mettere a frutto il proprio talento.

Rocco Giudice.


[i] Nel 1971 trasposta in progressive rock dal trio Emerson Lake & Palmer, che inframmezza a alcuni brani della suite pezzi propri e una ‘coda’ tratta dallo Schiaccianoci di Piotr Ilic Ciaikovskij, la Marcia del I atto rielaborata in un’inedita versione ragtime. Keith Emerson, virtuoso tastierista (apprezzato anche da pianisti insigni, compreso, secondo leggenda vuole, il grande Arturo Benedetti Michelangeli), considerava Ravel una specie di spirito-guida: per Emerson, riscrivere la partitura raveliana nel sound pop significava rileggerne in profondità la lezione per applicarla, si vorrebbe dire, fedelmente. Meglio, dunque, lasciar perdere le censure dei puristi del rock e non dare retta agli anatemi dei fondamentalisti della musica classica: e ascoltare e riascoltare anche questo eccellente arrangiamento di uno dei capolavori di Mussorgskij.

[ii] Piace ricordare che Erasmo dedica l’opera a Tommaso Moro (Thomas More), a casa del quale il libro fu scritto (nel 1509, per essere pubblicato due anni dopo; successive edizioni apparvero nel 1512 e nel 1514, fino alla definitiva, che è del 1515); e come Erasmo spiega nella premessa, l’intento di onorare l’amico e ospite profitta della prossimità fonetica fra il nome latinizzato del dedicatario – Morus e italianamente, Moro – e il termine greco per stoltezza o follia, Morìas (il titolo originale è Moriae Encomium, che accomoda e acconcia secondo desinenze latine il greco Morìas Encomion): accostamento antifrastico, essendo Moro, continua Erasmo, persona il cui equilibrio e la cui dignità sono riconosciuti da tutti. La lode è bonariamente temperata nel concludere la prefazione con una sfumatura di involontaria polemica, in cui, perciò, tanto più flagrante si percepisce una latente perfidia amicale: “Ma perché tante parole a te, che sei avvocato così eccezionale da saper difendere ottimamente anche cause non ottime? Addio, dunque, facondissimo Moro e patrocina con zelo la tua Morìa.” Questo particolare offre una indicazione indiretta sul modo in cui fu concepita e analogamente all’Elogio, andrebbe intesa Utopia (1516) di Moro, accogliendo questi l’invito rivoltogli a emulare l’amico perorando qualche follia condegna rispetto a quella celebrata dal libro che gli era intestato. Utopia offrirà, dunque, una parodia dell’Europa degli inizi del XVI secolo, non un modello alternativo di società: essa si presenta come immagine speculare o rovesciata della stoltezza dell’ordine sociale reale, non propone un ideale di perfezione politico-civile, che, nella visione dell’umanista cristiano cattolicamente fermo al principio di realtà, rimane al di fuori della portata delle forze storiche, comprese quelle meglio armate di bell’e buone intenzioni. L’ideale come burla, insomma; o se vogliamo, come caricatura di quella non riconosciuta burla (tale perché sia senza scuse la nostra infelicità) che è l’ordine costituito.

 

 

 

 

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"Promenade"

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