IL GRAN CAMPOSANTO DI MESSINA

Raccontate una vostra passeggiata per segnalare, ai lettori del giornale, un luogo d’interesse artistico o naturalistico.

All’ Ombra dei Cipressi….

di Anna Di Leo

   Domenica a Messina. Primavera inoltrata e cielo terso; una brezza leggera, stamattina, muove appena le chiome degli alberi, e i miei capelli. Mi piace passeggiare e oggi ho una meta speciale: il Gran Camposanto. Ho visitato diversi cimiteri importanti, storici, ed ogni volta, credetemi, è stata una passeggiata serena, istruttiva, e in più di una occasione ho fatto scoperte stupefacenti. Così, ad esempio, è stato al Père Lachaise, a Parigi: emozioni forti che ricordo ancora oggi, dal severo e lucidissimo marmo nero che accoglie il corpo dello scrittore Marcel Proust, al grande monumento di Oscar Wilde, alla semplice lapide del tormentato artista Amedeo Modigliani; e poi presso la sepoltura del giovane e trasgressivo rocker Jim Morrison (sulla quale i giovani di tutto il mondo lasciano affettuosi bigliettini e lattine di birra), e la tomba del pianista Frédérick Chopin -infiammata da un mazzo di rose rosse freschissime. E infine, davvero particolare, l’arca funebre del grande Théodore Géricault , sul quale lui sta disteso in una posa un po’ etrusca (ve lo ricordate il Sarcofago degli Sposi?) ritratto con in mano gli “arnesi del mestiere”, tavolozza e pennelli, mentre sul basamento spicca, in bassorilievo, la riproduzione della sua opera più famosa (Le Radeau de la Méduse, 1818-19). Il Gran Camposanto di Messina è, insieme a quelli di Milano e di Staglieno (Genova), uno dei tre Cimiteri Monumentali italiani. Posto sul declivio di una piccola collina a sud della città fu inaugurato il 6 aprile 1872; il magistrale progetto è opera dell’architetto Leone Savoja (1814-1885). Attraversato il grande cancello e costeggiando, sulla destra, il bellissimo parterre verde ci si inoltra verso la parte più interessante del cimitero, in cui si trovano le tombe più antiche -anche arricchite da pregevoli opere scultoree. Mentre mi incammino, tra il verde dei cipressi e dei salici, in questo che lo scrittore francese Renè Bazin (1853-1932) definì “le jardin funebre”, osservo non senza ammirazione il ritratto scultoreo di un aristocratico signore di fine ottocento: un paltò ben tagliato su cui sta poggiato, con noncurante eleganza, un collo di pelliccia, e poi, sotto, il panciotto da cui emerge lo sbuffo di una cravatta a fiocco. Grandi baffi, accuratissima pettinatura, sguardo distaccato e sereno. Il silenzio è rotto soltanto dal lieve scricchiolio della ghiaia sotto i miei piedi, mentre vado incontro ad una signora in età, il cui busto marmoreo è chiuso in un corsetto dai molteplici bottoncini: una ruche di pizzo ne ingentilisce la severità mentre il grande cammeo appuntato sul petto dice di una agiatezza solida ma discreta. Ed ecco una sepoltura semplice, solo una lapide, ma bella nella sua essenzialità e commovente per quello che ricorda “Qui giace l’ultimo camiciotto…..” Camiciotto. Capite? Così erano chiamati i Garibaldini, che vestivano un “camiciotto” rosso, e quella semplice tomba custodisce le spoglie di un garibaldino: come posso non emozionarmi? C’è la Storia qui! … e infatti, poco più in alto, in divisa d’ordinanza e spada al fianco si erge maestoso il colonnello Vollaro che “militò in Crimea e… il 12 gennaio 1948 attaccò ardimentoso i saccomanni borbonici”. Poi, accanto alla Storia con la esse maiuscola ce n’è una più semplice, cittadina, domestica vorrei dire, che però è grande per chi l’ha vissuta e per chi, poi, l’ha voluta ricordare anche su una lapide. Così il “barbiero e cerusico” Antonino Cicala è ritratto, in altorilievo, nella sua bottega, intento a servire un cliente mentre, nella scritta dedicatoria, la moglie e i figli ne ricordano lo spirito probo e attento alle necessità dei poveri. E infatti se guardate bene un povero storpio è ritratto proprio là, davanti la porta della “barberia”, la mano tesa a ricevere una provvida elemosina. E l’eccellente criminologo? Sta in piedi lui, ritratto a grandezza naturale, alto, severo, ammantato nella sontuosa toga, ai piedi numerosi grandi codici, a ricordare, forse, il peso -anche gravoso- delle sue decisioni. E’ invece leggero (capolavoro del Maestro Scultore Giovanni Scarfì) l’abito che veste Peppino, piccolino di forse due anni. Sta seduto su una grande roccia, aspra, come aspro dev’esser stato il dolore dei genitori che ne fecero realizzare il monumentino: ha calzine ricamate e scarpette allacciate con un fiocco. Poco più in là ecco la dolce Giacomina, due anni appena, con un meraviglioso abito da bambola, tutto ruches e merletti; e come non ricambiare lo sguardo malinconico del piccolo Francesco che mi guarda salire lungo il vialetto dall’alto del suo monumento: un bimbo di famiglia molto benestante, come dice il suo elegante abitino completo di mantellina e fiocco, interamente bordato con un prezioso pizzo a tombolo. Tanti bambini… Ancora nella 2° metà dell’ Ottocento l’aspettativa di vita era molto bassa, soprattutto tra i più piccoli ( 1 su 5 moriva entro il primo anno di vita); e poi nel 1854 sulla città si abbattè il colera (10.000 vittime), e tra il 1918 e il 1920 la pandemia di “spagnola”. La tragica notte del 28 dicembre 1908, poi, si portò via più di 70.000 vite: ecco, un conto è leggere questi numeri e un altro è vedere cappelle e cappelle e poi ancora cappelle in cui le lapidi portano tutte, tutte, questa identica data: famiglie intere, grandi e piccini, adolescenti e vecchi. Ho letto tanto, sull’argomento, viste molte fotografie d’epoca, ho ascoltato i racconti tramandati dai membri sopravvissuti della mia famiglia, ma solo al Gran Camposanto ho percepito la spaventosa misura di questo immane disastro: una città di morti dentro un’altra città di morti…. Ecco ora il “Cimitero degli Inglesi”. Dalla seconda metà del 1700 si stabilì a Messina una cospicua e operosa comunità di imprenditori e mercanti inglesi che qui investirono i loro capitali aprendo opifici e uffici mercantili; anche loro dormono su questa collina, insieme ai cittadini che li accolsero e lavorarono al loro fianco. La passeggiata continua, e man mano che si sale i vialetti diventano più stretti ed erti, quasi impervi. Mi sembra di fare una scalata mentre mi avvicino al culmine della struttura. Una scalata. Verso dove? Verso che cosa? E forse proprio questo voleva l’architetto Savoja: che si producesse nell’animo del visitatore questa sorta di attesa, che si formasse in ciascuno, questa domanda: “che cosa c’è lassù?”. Ancora pochi passi e ci siamo. Il Famedio. Come descriverlo? Una grande terrazza affacciata sullo Stretto, uno spettacolare belvedere che spazia tra Tirreno e Jonio, una “scenografia” naturale che quasi mozza il fiato per la bellezza di un paesaggio che credevo di conoscere da sempre e che, all’improvviso, mi sembra così nuovo e meraviglioso. Ora è chiara l’idea del geniale urbanista: la maestosità dell’ impianto scenografico e naturalistico non solo fa del suo progetto un capolavoro indimenticabile ma lo rende (e a me pare: come nessun altro) mirabilmente consono alla solennità e alla sacralità del luogo. Il Famedio è un loggiato di grandiose proporzioni destinato ad accogliere le arche funebri dei Grandi che hanno onorato la città di Messina: il matematico Francesco Maurolico (1494-1575), lo scrittore e patriota Giuseppe La Farina (1815-1863), il poeta e scrittore Felice Bisazza (1809-1867); di certo le sue arcate, con la loro ariosa struttura, invitavano i miei concittadini di fine Ottocento alla contemplazione di questo paesaggio di smagliante bellezza… che meraviglia…! e che rabbia. Perché, purtroppo, proprio il Famedio, è la parte più gravemente compromessa del Gran Camposanto, prima dal terremoto del 1908 e poi, e oggi ancora, dall’assoluta indifferenza degli amministratori e anche dalla miope prospettiva di quella parte di cittadini che, sia per formazione culturale che per effettive possibilità di esercitare una efficace pressione nelle giuste sedi, potrebbero -mentre invece tacciono- promuovere un intervento di recupero che non è più differibile. E che rabbia, dunque, vedere ancora, ancora lì da 104 anni, centoquattro anni!, le macerie del terremoto quasi come sono venute giù in quel tragico mattino di dicembre. Si ha la sensazione che quasi nulla sia stato rimosso, niente sia stato bonificato, puntellato, messo in sicurezza, nessuno ha sentito il dovere di restituire un aspetto almeno decoroso a questa parte del Camposanto che è, e per ragioni non solo religiose, un luogo sacro, perché sacra è la memoria dei nostri morti. Venite a fare una passeggiata al Gran Camposanto di Messina. Sarà una passeggiata nella Storia e nell’Arte, nella storia del Costume Sociale come in quella della Moda, una passeggiata nella storia di questa Città, ma anche in quella della Sicilia, e dell’Italia perfino. Qui potrete vedere come le immani forze della natura possono violentare l’Uomo e la sua Opera e come violente, per un altro verso, possono essere l’incuria e il disinteresse di quello stesso uomo verso la sua storia e il suo patrimonio d’arte. Visitate il Gran Camposanto di Messina e il suo Famedio, e fate presto, prima che la rovina di questo capolavoro di Architettura e di Arte sia completa, prima che la sua bellezza sia cancellata, e per sempre, dal trascorrere del tempo e dalla colpevole indifferenza umana. 

 

Messina, 14 Aprile 2012

  •  Un consiglio di lettura: “Antologia di Spoon River” di Edgard Lee Master

Da cui sono tratti questi versi:

“La collina”

“Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.”

……

“Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.”

  •  e un consiglio di ascolto: “Non al Denaro, non all’Amore, né al Cielo”

Canzoni di Fabrizio De Andrè sui testi di Edgard Lee Master