In esclusiva - per Punto Arte - i luoghi della Riforma Agraria in Sicilia

IL PAESE DELLE FATE

Non è il caso di risalire alle più remote memorie d’infanzia per trovare una ragione alla definizione di Borgo Lupo (per la precisione: Borgo Pietro Lupo), trovata dai grandi (a costo zero) a beneficio dei voli di fantasia d’alta quota dei bambini, come ‘il Paese delle fate’: così diverso appare, per ‘struttura urbana’ e fattura architettonica, dai paesi circonvicini – Mineo, Palagonia, Ramacca, Raddusa… (Anni fa, il pittore Santo Marino mi raccontò che, un giorno, Leonardo Sciascia definì Raddusa, Ramacca e Palagonia, dal Racalmutese attraversati per giungere in visita a Militello, uno dei principali centri del Distretto del Barocco, i paesi più brutti e più desolati della Sicilia). Scavalcati i primi contrafforti degli Erei, al centro di una valle a pascolo e seminativi, Borgo Lupo – un filare di cipressi lungo la strada che costeggia l’abitato, un largo ventaglio di eucalipti che fanno schermo ai fabbricati, con l’abbeveratoio e a poca distanza, gli stabbi, mentre buoi e cavalli sono liberi di scorrazzare – sembra Rio Bo. Un paese caduto dal cielo o uscito dalle pagine delle fiabe o da quelle del sussidiario, come si chiamavano ai tempi i libri di testo delle scuole primarie; oppure, un paese fuggito attraverso le maglie strette delle pagine a quadretti su cui noi bambini disegnavamo le case in cui ci sarebbe piaciuto vivere (nemmeno in questi sogni di una pagina c’era posto, però, per l’allacciamento alla rete idrica e fognaria, per non parlare dell’elettricità). Era (è) un posto bellissimo. E' magico, sì.

Svuotati, a partire dalla metà degli anni Sessanta, dall’emigrazione e come contropartita del Piano Marshall, dalla concorrenza mortale del grano nordamericano, molti dei centri come Borgo Lupo, residui quasi spettrali della Riforma Agraria – ovvero di quel tentativo di Riforma fuori tempo massimo che si risolse in una sorta di miraggio fra Arcadia e Utopia –, finiranno per ricordare, per la fatiscenza e per lo scenario ambientale che gli fa da cornice (ma non è così per i borghi sorti sui Nebrodi e le Madonie o lungo i versanti dell’Etna e in altre plaghe della, come dire, Sicilia felix ovvero meno arida), le città-fantasma del Far-West, la credibile versione in formato ‘spaghetti-alla-Norma-western’ dei luoghi in cui, con l’aiuto del Corriere dei Piccoli, di Lucky Luke e di Tex Willer, era possibile trasferirsi con la fantasia per appassionanti avventure vissute sempre lungo qualche invisibile frontiera – Tombstone, Abilene, Deadwood, Dodge City… Santa Fé, Durango, El Paso, Laredo… Certamente, la definizione di ‘Paese delle fate’, che si può estendere anche a altri centri che costellano una geografia siciliana assai poco conosciuta, trova riscontro nel passaggio dalla favola, a cui era facile credere ai piccoli, a quello che si rivelò il mito della Riforma Agraria, a cui era più facile credere ai grandi o a non pochi fra di essi.

A parte i casi isolati e circoscritti di esperimenti riformatori a ridosso del movimento dei Fasci Siciliani e antecedenti la Grande Guerra, è nel primo dopoguerra che la ‘questione contadina’ viene affrontata dai governi, prima, liberali e poi, fascisti, per non lasciare cadere nel vuoto o del tutto nel vuoto la promessa di dare la terra ai reduci dal fronte. In una diversa cornice storica e ideologica, dall’epoca pre- a quella post-fascista, sia pure in maniera parziale e in definitiva, velleitaria, i progetti di colonizzazione del latifondo, se non potevano risolvere il problema della ‘fame di terra’ del mondo contadino o modernizzare il settore agricolo nel quadro dell’industrializzazione crescente del nostro Paese e del complesso delle sue strutture produttive, nonché della ridefinizione degli assetti proprietari e della trasformazione globale del mondo rurale, tentavano di offrire, sia pure all’interno di un quadro istituzionale e di sistema, una risposta alle esigenze e alle pressioni che provenivano dalle masse contadine, non senza incontrare resistenze da parte della proprietà – resistenze molto forti, come è noto, dalle nostre parti. Le linee perseguite dal regime fascista, che intraprese con convinzione e determinazione, almeno negli intenti (“Questi problemi vanno presi d’assalto come una trincea”, aveva dichiarato Mussolini), un vasto piano di trasformazione delle campagne che portò in tutto il Paese alla fondazione di borghi e città quale non si era mai visto in precedenza, rispondevano all’esigenza di frenare emigrazione interna e conseguente inurbamento (specie in una realtà come quella siciliana, in cui, per ragioni storico-sociali, per i contadini era preferibile vivere in paese, piuttosto che risiedere sul fondo) e quindi, di ri-ruralizzare le campagne in nome e nel mito del ‘ritorno alla terra’.

L’opera di trasformazione delle aree rurali aveva preso spunto dalla bonifica delle campagne, condotta allo scopo di debellare la malaria e nello stesso tempo, di recuperare terreni incolti e accrescere le superfici coltivabili. Una rete di borghi e sottoborghi doveva coprire le aree del latifondo e consentire il passaggio dalla coltura estensiva a una intensiva, per la quale era necessario trattenere il contadino sul fondo assegnato. D’altra parte, occorreva scongiurare il rischio che i borghi rurali potessero raggiungere le dimensioni dei grossi centri agricoli che la Riforma intendeva, invece, decongestionare. Pertanto, i borghi rurali sorti in Sicilia - in tutto, sessantré, disseminati nelle attuali nove province dell’isola – non furono progettati per divenire centri predisposti a assumere dimensioni urbane, ma per mantenere il carattere di ‘città in miniatura’.

Il fascino dei borghi e prima ancora, il carattere ‘utopistico’ della Riforma è ravvisabile, innanzi tutto, nell’impianto ‘urbano’ e negli aspetti architettonici degli edifici. In uno stesso luogo – oggi, quasi sempre disabitato e in rovina – vediamo coesistere scorci delle città del Rinascimento, reali e ideali, così come sono rappresentate nell’arte gloriosa di quell’irripetibile età e l’immagine museale di esse che ritroviamo nella pittura metafisica, dove sono evocate per fare da scenari, più che a un luogo determinato, a un altrove, a un immobile orizzonte, non rimosso retroscena della memoria o piuttosto, di un inabitabile spazio fuori del tempo storico.

I borghi sorsero, oltre che dalla riconversione di villaggi operai edificati nel corso di lavori di bonifica (per es., Villaggio Bardara, nei pressi di Lentini, in provincia di Siracusa, per il prosciugamento del Biviere; Borgo Littorio, in provincia di Palermo, edificato in occasione della bonifica della Valle del Belice), anche dalla ristrutturazione di case cantoniere e villaggi operai sorti nei pressi di miniere o di cantieri stradali o ferroviari (Sferro, in provincia di Catania; Grottamurata, in prov. di Agrigento; Bellolampo, in prov. di Palermo; ecc…). A questi borghi costruiti per iniziativa dall’‘alto’ si affiancano i borghi rurali le cui origini precedono l’epoca fascista, anche se il regime interverrà a favore di queste realtà preesistenti, come nel caso di Libertinia, in provincia di Catania, borgo sorto sui terreni del barone Libertini e del Villaggio Santa Rita, in provincia di Caltanissetta, dovuto al barone La Lomia. In altri casi ancora, invece, si trattò di borghi sorti nel cuore del latifondo o di aree demaniali: si pensi a Mussolinia (poi, Villaggio Santo Pietro) e il già ricordato Borgo Lupo, in provincia di Catania; Borgo Cascino, in provincia di Enna; Borgo Fazio (Trapani); Borgo Schirò (Palermo), ecc…

Nel secondo dopoguerra, nel quadro delle lotte per l’occupazione dei fondi, l’opera di trasformazione delle aree rurali proseguì attraverso i Consorzi di Bonifica e con i finanziamenti del Ministero ai LLPP e della Cassa per il Mezzogiorno. A parte qualche villaggio operaio riadattato (per es., Borgo Baccarato, in prov. di Enna, nei pressi di una miniera di zolfo; il villaggio operaio sorto intorno alla stazione di Dittaino, sempre in prov. di Enna), gli insediamenti non erano finalizzati, però, alla fondazione di villaggi rurali: si tratterà, perlopiù, di modesti nuclei abitati, semplici allineamenti di case rurali o di abitazioni isolate destinate ai contadini assegnatari, privi di servizi di supporto e di infrastrutture, come si vedono nelle campagne dell’interno della nostra regione.

Il modo migliore per preservare borghi e aree ancora poco segnate da un’antropizzazione a alta densità è, probabilmente, quello di porre questi luoghi sotto gli occhi di tutti perché le istituzioni siano 'costrette' a recuperarli e a preservarli da ogni intervento o manipolazione che ne comprometta l’equilibrio, la specificità e le potenzialità. Il loro segreto non è destinsto a durare, nell’epoca di Google Earth: non si riesce a immaginare quello che potrebbe succedere, se a occuparsi di siti così sperduti e preziosi dovessero essere operatori turistici alla ricerca di terre vergini per pacchetti promozionali predatori e distruttivi; o qualche multinazionale basata sull’assioma che il paesaggio esista per fare da location a basso costo per centri commerciali sempre più grandi; o una joint-venture alberghiera per la quale costruire per il più vasto pubblico sembra la scusa nobile e il travestimento migliore e insospettabile per demolire tutto ciò che sta intorno senza che nessuno se ne accorga o ci faccia tanto caso.

Incantato dal 'Paese delle fate', ho sempre cercato di interessare esponenti della cultura e delle istutizioni al problema della salvaguardia e del recupero di questo 'mondo perduto'. Finalmente, con alcuni amici abbiamo presentato un progetto presso l'Assessorato regionale al Turismo. Sarebbe importante, per chi ne ignora l’esistenza, vedere i borghi, inseriti in contesti paesaggistici pressoché inesplorati e incontaminati, lontani, certamente, dagli itinerari turistici, di massa o più esclusivi. Se è difficile raggiungerli oggi, lo era anche nel passato, quando la mancanza di infrastrutture fu una delle concause dell’abbandono dei borghi.

Il video che qui si allega, trailer di un documentario (quasi otto minuti di un sommario in cui è compresso un girato di tre ore circa, al momento) realizzato da Sebastiano Pennisi, vi risparmia la fatica di recarvi in loco e verificare di persona, mettendovi preliminarmente in condizione di stabilire se valga o no la pena di spingersi fino a lì per il gusto, se non altro, di un micro-trekking a escursione provinciale. In effetti, i borghi sono meta, adesso, di ricognizioni da parte di sparuti gruppi alla ricerca di ‘sentieri selvaggi’ da percorrere in bici o a cavallo, da un borgo all’altro, evitando l’asfalto delle strade, a scorrimento veloce e non, dissestate o meno; e girando al largo dai centri abitati più grandi.

Il documentario di Sebastiano Pennisi, “Fra Arcadia e Utopia” – di cui trovate una clip riassuntiva per sommi capi esclusivamente su “Punto Arte”, non sarà inutile precisarlo –, costituisce, al di fuori di qualche superstite filmato propagandistico d'epoca, la prima testimonianza filmata relativa ai borghi della nostra isola, assenti dalle immagini dei documentaristi più insigni, come Vittorio De Seta e Gianfranco Mingozzi, che percorsero la Sicilia in lungo e in largo nell’arco di tempo, strategico per la fine della ‘civiltà contadina’, fra l’inizio degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta. (Vi furono, inoltre, in questa ricerca ‘pionieristica’ dell’ultima facies delle campagne siciliane, registi come Alessandro Blasetti, che aveva inaugurato il Neorealismo, cinematografico e non, col documentario Sole, del 1929, che immortalava l’epopea della bonifica delle paludi dell'Agro Pontino; nel film L'avventura, di Michelangelo Antonioni, c'è una breve scena effettuata a Borgo Schisina, in provincia di Messina, poche sequenze che dimostrano come già allora, nel 1960, il borgo fosse abbandonato.)

Quanto detto per il video di Sebastiano Pennisi vale per le fotografie scattate da Eloisa Paloschi, fortemente incisive in termini di suggestione che i luoghi stessi, del resto, promanano. Video e foto dicono come recuperare questa esperienza costituisca un modo per riconsiderare in maniera più consapevole il deposito culturale cui attingono le nostre immagini del passato, condizionate da una visione della nostra terra su cui pesano stereotipi da noi siciliani, per primi, assimilati acriticamente e da cui stentiamo a distaccarci. La letteratura, il cinema, l’arte non ci hanno lasciato alcuna testimonianza - se  non altro, tale da integrare in una visione più ampia quanto è repertoriato nell'immagine 'ufficiale' della nostra terra - riguardo la Riforma Agraria in Sicilia, snobbata anche dagli storici. Questo atteggiamento di chiusura aprioristica, di sottovalutazione pregiudiziale o di distrazione corporativa è stato recentemente superato (o inizia a esserlo) grazie agli studi della storica francese Liliane Dufour, cui si deve il primo studio sull’argomento: Nel segno del littorio (ed. Lussografica, Caltanissetta, 2005).

Singolare come l’immagine e l’immaginario sulla Sicilia costruiti da cinema, televisione, arte, letteratura, pubblicistica varia abbiano trascurato questo capitolo della nostra storia. Nulla, a parte i rari precedenti citati, se non qualche immagine sfocata che rientra rarissimamente e peraltro, solo en passant, pochi fotogrammi appena intravisti (per quanto mi è stato dato visionare in trasmissioni televisive d'antan: inquadratura quasi sempre fissa, qualche carrellata, nessuna panoramica sullo scenario ambientale: come se tutto fosse già imbalsamato e pronto per fornire una citazione/flash in margine al già visto; una scenografia da teatro di posa, meglio se teatro dell’assurdo; un museo a cielo aperto delle speranze di riscatto outlet) in qualche reportage televisivo d’epoca le cui matrici aspettano solo di deteriorarsi irrimediabilmente. Tanto può bastare per comprendere che, nel caso dei borghi della Riforma Agraria, si tratta di una storia tutta da scrivere; e nella carenza di riscontri pratici, di tracce che non siano materiale d’archivio nemmeno completo – anzi, in gran parte distrutto e per il resto, appunto, danneggiato in maniera irreversibile –, il lavoro dello storico si trovi, ora, di fronte a molte difficoltà. In un certo senso, siamo di fronte a una (paradossale) storia da inventare, alla ricostruzione ‘in ipotesi’ di una ‘storia mancata’. Caduti dal cielo e pronti per tornarvi lentamente, cancellati in dissolvenza dagli orizzonti delle nostre campagne abbandonate, i borghi sembrano appartenere non alla storia generale, alle cui leggi rispondere, ma alla storia della pittura metafisica o della metafisica. In un caso così particolare, occorre lasciarsi guidare da una sorta di empatia immaginativa, utilizzando le risorse di sensibilità richieste dall’esperienza estetica.

Nel qual caso, non si tratterebbe di una soluzione di ripiego o di un arbitrio, perlomeno, del tutto ingiustificato: nelle intenzioni dei progettisti, infatti, i borghi dovevano costituire, come detto, una sorta di compendio o di miniaturizzata città ideale, in cui il bello fosse funzionale al valore sociale cui esso presiedeva come premessa di ogni conquista civile e fattore di dinamismo dell’azione collettiva volta al bene comune: dunque, parte di uno stesso patrimonio, fatto, innanzi tutto, di esperienze vissute. Anche per l’individuazione dei luoghi in cui edificare i borghi, i tecnici che progettarono la Riforma si attennero a priorità di ordine ‘estetico’: l’ubicazione dei borghi era determinata, oltre che dall’esigenza di mettere in produzione terreni, altrimenti, improduttivi, dall’esigenza di valorizzare il contesto territoriale in cui i borghi andavano inseriti, tenuto conto che la nostra isola racchiude una varietà di paesaggi che non ha confronti nel nostro Paese e non solo. (Secondo geografi e climatologi, alcune zone all’interno della Sicilia presentano caratteristiche simili alla steppa e come tali, sono inserite nelle mappe che evidenziano questo particolare tipo di paesaggio. Non ci credete? Date un’occhiata alla voce ‘steppa’ su Wikipedia.)

A conclusione di questo breve e di necessità, carente excursus, sarà opportuno cedere la parola alla summenzionata Liliane Dufour: “È indubbio che i borghi rurali costituiscano una parte notevole e poco nota del patrimonio siciliano del Ventennio, la cui conservazione si impone urgentemente. Le loro vestigia ancora oggi testimoniano quello che può venire considerato un fallimento o una disfatta: fallimento dell’utopia rurale e disfatta del fascismo. Oggi, il tempo dell’agricoltura estensiva è passato, mentre quello dell’agricoltura intensiva sta forse per finire; l’interesse collettivo si volge verso un connubio tra agricoltura e paesaggio; da questo punto di vista, la riconquista della memoria rurale siciliana implica uno sforzo per conservare quel patrimonio in cui l’interesse estetico e storico si confondono” (in Nel segno del littorio…, cit., pag. 397).

Rocco Giudice.

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I borghi della Riforma Agraria in Sicilia

Le immagini fotografiche si riferiscono a: Villaggio Bardara (prov. SR),  Borgo Rizza (prov. SR), Borgo Lupo (prov. CT), Borgo Baccarato (prov. EN).

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